Sull'Autonomia regionale la CEI rinnega la Dottrina
Esprimendo contrarietà pregiudiziale verso l'autonomia regionale che minerebbe l'unità dello Stato, la CEI sconfessa uno dei princìpi cardinali della Dottrina Sociale della Chiesa.
La CEI (Comunità Episcopale Italiana che, per chi non è pratico, è l'elemento che rappresenta il vertice istituzionale dal punto di vista giuridico della Chiesa Cattolica nella Repubblica Italiana) per tramite dei suoi massimi rappresentanti si è espressa in modo contrario alla riforma costituzionale che il Governo attualmente in carica vorrebbe introdurre sul tema dell'autonomia regionale. La contrarietà viene proclamata non nel merito della riforma, sulla quale diremo tra poco che non è quello che la gente ha richiesto con il voto (è bene ricordarlo), ma viene proclamata per questione di principio, adducendo come motivazione che l'introduzione di una riforma in senso autonomista su base regionale minerebbe l'unità dello Stato.
Prima di smontare questa scemenza da ignoranti e prima di dimostrare che tale affermazione contrasta apertamente addirittura con la Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica, è opportuno fare un breve riassunto dell'intera vicenda, partendo dal referendum tenuto in Veneto e Lombardia nel 2017 come frutto striminzito di decenni di battaglie, senza esito alcuno, per ottenere minore peso fiscale e migliore utilizzo della spesa pubblica.
Dopo aver chiesto federalismo, secessione, devoluzione, sempre cozzando contro una resistenza indomita da parte del centralismo burocratico che caratterizza la Repubblica Italiana, la battaglia delle popolazioni delle regioni maggiormente produttive e dinamiche (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna) è ripiegata sull'autonomia, già presente in certe forme nella Costituzione Italiana che prevede ben 6 enti territoriali a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Valle d'Aosta, Provincia autonoma di Trento e Provincia autonoma di Bolzano) a fianco delle altre 15 Regioni che hanno invece uno statuto ordinario; va inoltre rammentato che l'art.117 della Costituzione prevede forme di decentramento per diverse competenze, qualora ve ne fossero i presupposti, anche per le Regioni a statuto ordinario.
Nella prima parte degli anni Dieci del secolo, soprattutto in Veneto si è accentuato il dibattito politico sui temi identitari ed economico sociali, forse anche perché la nazione storica veneta che per moltissimi secoli fu omogeneamente compresa nella Repubblica Serenissima Veneta, risulta oggi frazionata tra due enti regionali (Veneto e Friuli Venezia Giulia) di cui uno è a statuto speciale (il Friuli VG) e l'altro che, per di più, confina a nord con le due Province autonome di Trento e di Bolzano, è invece a statuto ordinario e la gente tocca con mano o vede con gli occhi l'enorme differenza di efficienza e di disponibilità di risorse esistente fra un sistema e l'altro, con il risultato che esistono oggi cittadini di serie A che hanno avuto in sorte di risiedere in Regioni con maggiore autonomia e cittadini di serie B che pagano tasse senza avere servizi commisurati.
In ottobre del 2017, dopo mille battaglie in sede istituzionale, in Veneto e Lombardia si è tenuto un referendum consultivo per chiedere alla popolazione cosa ne pensasse sulla concessione di maggiore autonomia e, va ricordato, nel dibattito pubblico si parlò di trasformare le regioni richiedenti per farle diventare dal punto di vista istituzionale "come Trento e Bolzano". L'esito fu un clamoroso plebiscito, soprattutto in Veneto dove la partecipazione fu massiccia oltre ogni precedente, con un consenso praticamente unanime al 98,1 %.
Nei successivi 7 anni nulla è stato ottenuto e tutto quel che in Parlamento si è riusciti a promuovere è una riforma che non scalfisce il centralismo statale e non concede maggiori risorse, ma viene chiamata lo stesso "autonomia regionale" per ragioni elettorali da parte del partito Lega per Salvini Premier, discendente dell'estinto partito Lega Nord che dal 1992 al 2016 aveva avuto il monopolio su questo tipo di istanze.
Nonostante la riforma non conceda di fatto un centesimo alle regioni richiedenti maggiore autonomia (perché di gestire da soli i soldi delle tasse da spendere sul proprio territorio si trattava, altrimenti a che serve?) tutte le forze centraliste e stataliste si stanno ribellando come se si trattasse della madre di tutte le battaglie e, non bastasse questo sconcio teatrino che dimentica i milioni di votanti al referendum del 2017, si è aggiunta anche la CEI a proclamare la sua contrarietà di principio all'autonomia regionale.
Ora capiamoci: se ci sono già 6 enti amministrativi che godono di un privilegio contro 15 che ne sono privati, siamo già di fronte alla violazione del principio di uguaglianza fra cittadini sul piano civile e sociale, ma anche di fronte alla violazione del principio di solidarietà in ragione della Dottrina Sociale della Chiesa. Ma oltre al principio di solidarietà viene violato anche il principio di sussidiarietà, che è anch'esso uno dei 4 cardini della DSC, e stupisce sentire dei vescovi parlare di attacco all'unità di fronte a una proposta di decentramento amministrativo. Sarà quindi il caso di copiare qui di seguito cosa recita testualmente il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa su questo tema.
Al punto 186 si legge testualmente:
L'esigenza di tutelare e di promuovere le espressioni originarie della socialità è sottolineata dalla Chiesa nell'enciclica « Quadragesimo anno », nella quale il principio di sussidiarietà è indicato come principio importantissimo della « filosofia sociale »: « Siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l'industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l'oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle ».
In base a tale principio, tutte le società di ordine superiore devono porsi in atteggiamento di aiuto(« subsidium ») — quindi di sostegno, promozione, sviluppo — rispetto alle minori. In tal modo, i corpi sociali intermedi possono adeguatamente svolgere le funzioni che loro competono, senza doverle cedere ingiustamente ad altre aggregazioni sociali di livello superiore, dalle quali finirebbero per essere assorbiti e sostituiti e per vedersi negata, alla fine, dignità propria e spazio vitale.
Alla sussidiarietà intesa in senso positivo, come aiuto economico, istituzionale, legislativo offerto alle entità sociali più piccole, corrisponde una serie diimplicazioni in negativo, che impongono allo Stato di astenersi da quanto restringerebbe, di fatto, lo spazio vitale delle cellule minori ed essenziali della società. La loro iniziativa, libertà e responsabilità non devono essere soppiantate.
Ancora più in concreto si esprime il seguente articolo 187:
Il principio di sussidiarietà protegge le persone dagli abusi delle istanze sociali superiori e sollecita queste ultime ad aiutare i singoli individui e i corpi intermedi a sviluppare i loro compiti. Questo principio si impone perché ogni persona, famiglia e corpo intermedio ha qualcosa di originale da offrire alla comunità. L'esperienza attesta che la negazione della sussidiarietà, o la sua limitazione in nome di una pretesa democratizzazione o uguaglianza di tutti nella società, limita e talvolta anche annulla lo spirito di libertà e di iniziativa.
Con il principio della sussidiarietà contrastano forme di accentramento, di burocratizzazione, di assistenzialismo, di presenza ingiustificata ed eccessiva dello Stato e dell'apparato pubblico: « Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l'aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese ». Il mancato o inadeguato riconoscimento dell'iniziativa privata, anche economica, e della sua funzione pubblica, nonché i monopoli, concorrono a mortificare il principio della sussidiarietà.
All'attuazione del principio di sussidiarietàcorrispondono: il rispetto e la promozione effettiva del primato della persona e della famiglia; la valorizzazione delle associazioni e delle organizzazioni intermedie, nelle proprie scelte fondamentali e in tutte quelle che non possono essere delegate o assunte da altri; l'incoraggiamento offerto all'iniziativa privata, in modo tale che ogni organismo sociale rimanga a servizio, con le proprie peculiarità, del bene comune; l'articolazione pluralistica della società e la rappresentanza delle sue forze vitali; la salvaguardia dei diritti umani e delle minoranze; il decentramento burocratico e amministrativo; l'equilibrio tra la sfera pubblica e quella privata, con il conseguente riconoscimento della funzionesociale del privato; un'adeguata responsabilizzazione del cittadino nel suo « essere parte » attiva della realtà politica e sociale del Paese.
Alla luce di queste evidenze si comprende come la CEI sbagli grandemente a osteggiare l'autonomia e, anzi, dovrebbe spendersi per favorire una riforma in senso nemmeno regionale, ma addirittura cantonale dello Stato sul modello svizzero, ricordando che un altro principio proclamato con forza dalla DSC è il principio di autodeterminazione dei popoli che lascerebbe, in linea teorica e sempre di principio, la porta aperta anche alla secessione delle nazioni preunitarie che volessero tornare a essere Stati indipendenti. Invece la CEI ragiona con la logica rivoluzionaria risorgimentale che ha distrutto gli Stati cattolici preunitari per dar vita allo Stato unitario laico di matrice massonica e vien da pensare che l'art.7 della Costituzione Italiana, associato ai relativi Concordati, garantisca ai vescovi e alle loro clientele quello che temono di perdere se la gestione delle imposte fosse più virtuosa e meno centralizzata.
Per concludere: la riforma in discussione in Parlamento è un autentico schifo e sarebbe meglio che non venisse approvata, in quanto di autonomia ha solo il titolo; ma la Dottrina Sociale della Chiesa è favorevole all'autonomia per principio, come è favorevole a ogni forma virtuosa di decentamento amministrativo (regionalismo, federalismo), e come è favorevole addirittura all'autodeterminazione fino all'indipendenza dei popoli storicamente determinati e in grado di reggersi da soli. Se i vescovi della CEI sono in malafede, aggiungono solo tristezza a quanto quotidianamente fa il vertice spirituale della Chiesa Cattolica sul piano dottrinale e morale; ma se sono in buona fede, vadano a studiare, per Dio! Che la Dottrina Sociale della Chiesa non è stata scritta ieri mattina, ma vige da prima che loro stessi diventassero vescovi e si è costantemente aggiornata in modo sempre coerente con i suoi princìpi, almeno fino a quando non ha preso il potere l'attuale pontefice.