ZAIA LA PESTE
Quando l’autonomismo veneto è diventato folklore da sagra e il Nord è stato svenduto al pensiero unico globale

A sentir pronunciare il titolo “Zaia la peste”, qualcuno potrebbe pensare al titolo di un cartone animato: un nome noto associato a una calamità, con intento ironico. Ma chi conosce la Storia sa che la peste fu davvero un flagello epocale, e che ciò che può sembrare grottesco in superficie può nascondere verità ben più gravi. Non si tratta di satira, ma di una diagnosi.
Dopo quindici anni di guida incontrastata della Regione Veneto, il presidente Luca Zaia si appresta a lasciare il segno nella memoria collettiva. Quale segno? Non certo quello dell’autonomismo realizzato, né della rinascita culturale veneta, né della tutela del territorio, né tantomeno di una resistenza al dilagare della deriva antropologica che affligge l’Italia contemporanea. Al contrario: ciò che resta, a uno sguardo oggettivo e non idolatrico, è un sistema di potere consolidato, apparentemente intoccabile, in cui la Lega — ormai del tutto svuotata del suo senso originario — ha sostituito il vecchio apparato democristiano solo per gestire meglio ciò che un tempo diceva di voler rovesciare.
Il grande tradimento dell'autonomia
Il primo tradimento, evidente e macroscopico, è quello dell’autonomia fiscale e amministrativa. Il referendum del 2017 — con oltre il 98% di “sì” — fu venduto ai veneti come l’inizio di una nuova era, con competenze, risorse e responsabilità riportate a Venezia. Ma non un solo passo decisivo è stato compiuto. La partita è stata lasciata morire lentamente, sacrificata sull’altare degli equilibri romani e della comoda rendita di posizione che il potere regionale garantisce. Nessuna rottura col centralismo fiscale, nessuna rivendicazione seria. Solo dichiarazioni di facciata.
Cultura e identità: grande assente
Nel campo della valorizzazione della cultura veneta — storia, lingua, radici religiose, coscienza popolare — il bilancio è desolante. Nessuna politica educativa strutturata, nessuna promozione linguistica degna di nota, nessuna difesa dell’identità cattolica che ha plasmato le Venezie. Il Veneto, che fu culla di civiltà, terra di santi, patria di artigianato e di libertà comunale, è stato ridotto a brand turistico e vetrina folkloristica da vendere a pacchetti all-inclusive ai tour operator asiatici e tedeschi.
Nel frattempo, si dimenticano i simboli religiosi, si marginalizza l’insegnamento della storia locale, si abbandona ogni serio progetto culturale che possa contribuire a ricostruire una coscienza di popolo. Chi oggi ha vent’anni e vive in Veneto conosce forse più TikTok che san Marco, e questo non è solo colpa dei social, ma anche di chi ha preferito l’indotto commerciale al bene comune.
Il disastro ambientale (e finanziario)
Ma il vero volto della “modernizzazione” zaiana si vede nel territorio devastato. La cementificazione selvaggia, la complicità silenziosa verso i PFAS e altri inquinanti, l’opera faraonica — e disastrosamente gestita — della Pedemontana Veneta, hanno trasformato una regione agricola e artigiana in una terra consumata. La Pedemontana, presentata come il fiore all’occhiello di un Veneto che corre, è in realtà un buco nero finanziario che graverà per decenni sui contribuenti veneti: costi lievitati, pedaggi insostenibili, concessioni ventennali a società private, mentre le strade locali non si svuotano.
A questa lista si aggiunge il capitolo ancora aperto — e già emblematico — delle Olimpiadi invernali Milano-Cortina. Nate come sogno locale, simbolo di una montagna che vuole contare, sono divenute l’ennesimo caso di marginalizzazione del Veneto. Opere in ritardo, gestione organizzativa spostata a Roma (via Milano), e uno stillicidio di spese pubbliche mal controllate. Eppure, alla fine, si celebrerà la kermesse col solito taglio del nastro, i brindisi al prosecco e le dirette Rai: l’estetica dell’efficienza al posto della sostanza. Ma il fallimento, chiaro a chi non si accontenta della propaganda, resta.
Dal Nord padano alla subalternità etica
Zaia e la sua Lega “governativa” non solo hanno abbandonato la Questione Settentrionale, ma hanno rinunciato ad ogni residua dignità di rappresentanza del Nord produttivo. Il sogno di “padroni a casa nostra” è stato sostituito dal silenzio complice davanti a politiche sempre più aggressive contro il ceto medio e le libertà locali.
E come dimenticare la gestione pandemica? Il Veneto è stato tra i primi a blindare, chiudere, controllare, sorvegliare. Zaia è diventato simbolo del “più realista del re”, il governatore che non solo eseguiva i diktat del Comitato Tecnico Scientifico, ma li anticipava e li amplificava, imponendo misure coercitive anche laddove la legge nazionale lasciava margini di discrezione. Il volto sorridente dei bollettini quotidiani mascherava una deriva autoritaria che ha compromesso libertà fondamentali e scavato un solco profondo fra cittadini e istituzioni.
Soprattutto in campo etico, la Regione Veneto sotto Zaia ha assunto posizioni che nulla hanno a che fare con la cultura cattolica che, ancora oggi, permea il tessuto popolare. Dall’apertura verso la legalizzazione della prostituzione alla normalizzazione della transizione di genere, dal favore dichiarato sull’eutanasia al possibilismo verso la liberalizzazione delle droghe leggere, fino al sostegno passivo alla cultura abortista, il Veneto ha perso anche l’anima. Le scelte non sono state sempre dichiarate, ma il favore accordato a certi ambienti, le nomine, i finanziamenti e le omissioni parlano più delle parole.
Non padroni, ma prigionieri
Il problema non è solo Zaia come persona, ma Zaia come simbolo di un ciclo: un ciclo politico che ha usato il consenso popolare, il marchio identitario e i sogni autonomisti per costruire un sistema autoreferenziale. Un sistema fatto di intrecci tra politica e affari, tra sanità pubblica e interessi privati, tra informazione regionale e propaganda istituzionale. Una regione commissariata dal politicamente corretto, dove ogni voce critica è sospinta ai margini come “no vax”, “reazionaria” o “nemica del progresso”.
Alla fine, il veneto medio è rimasto con meno autonomia, meno radici, più debiti e meno libertà. Ma ancora vota Zaia, forse perché non gli è stato mai raccontato cos’altro avrebbe potuto essere.