TRUMP E I DAZI CHE FANNO TREMARE I GLOBALISTI
Mantenendo fede al programma elettorale su cui ha ottenuto il consenso degli elettori, Trump ha utilizzato subito la politica economica dei dazi per avviare un processo di parziale deglobalizzazione. Ovvia e scontata, quanto violentissima, la reazione dei mass media di proprietà dell'élite apolide globalista.

L’annuncio dei nuovi dazi imposti dall’amministrazione Trump segna un ulteriore passo nella direzione di un processo di deglobalizzazione tanto necessario quanto inevitabile. Chiunque abbia seguito con attenzione il programma elettorale del Presidente degli Stati Uniti sa bene che questa scelta non rappresenta né una sorpresa né un’azione improvvisata, ma piuttosto il naturale sviluppo di una visione economica coerente con la difesa della sovranità nazionale e della produzione industriale interna. Una visione che rifiuta il dogma neoliberista della globalizzazione incontrollata, strumento con cui l’élite finanziaria apolide ha distrutto l’economia reale delle nazioni per trasferire ricchezze e potere decisionale nelle mani di pochi oligarchi senza radici né identità.
La reazione isterica dei mass media europei, da sempre allineati con il globalismo progressista, era altrettanto prevedibile. Per anni, giornalisti e opinionisti hanno presentato il libero scambio come un dogma indiscutibile, sorvolando con disinvoltura sulle devastazioni industriali che esso ha provocato nei paesi occidentali, svuotati della loro capacità produttiva e ridotti a mercati passivi per beni prodotti altrove, spesso in condizioni di sfruttamento e senza alcuna tutela sociale. La narrativa dominante in Europa non è mai stata neutrale: i media di sistema, controllati dalle stesse élite sconfitte nelle urne americane, non possono accettare che Trump mantenga le sue promesse elettorali e dimostri che un’alternativa al paradigma globalista esiste davvero.
Questa opposizione scomposta non è solo una questione ideologica, ma anche economica e strategica. L’Unione Europea è oggi una struttura burocratica in mano a tecnocrati che rispondono agli stessi centri di potere che hanno portato avanti il progetto di globalizzazione selvaggia. Per loro, l’idea che uno Stato sovrano possa adottare misure protezionistiche per difendere la propria economia è un’anomalia inaccettabile, perché minaccia il loro piano di totale omologazione e controllo centralizzato. Il loro obiettivo non è mai stato il benessere dei popoli europei, ma il mantenimento di un sistema in cui la grande finanza transnazionale detiene le redini del destino economico e politico dell’Occidente.
È evidente che l’Europa sta pagando un prezzo altissimo per la sua cieca adesione ai dogmi del mondialismo. Le politiche di deindustrializzazione, l’apertura incontrollata ai mercati esterni e l’asservimento ai diktat delle grandi corporation hanno impoverito interi settori produttivi, generando disoccupazione e precarietà. L’America di Trump, al contrario, ha scelto di rispondere proteggendo la propria industria, restituendo centralità al lavoro nazionale e ribaltando decenni di politiche suicide imposte dalle stesse logiche che dominano Bruxelles.
La lezione da trarre è chiara: per tornare a essere padroni del proprio destino, i popoli europei devono spezzare le catene del dogmatismo economico globalista e riprendere il controllo delle proprie economie. Non saranno i burocrati di Bruxelles, né i media di sistema a garantire prosperità e sicurezza ai cittadini europei, ma solo una nuova visione politica che rimetta al centro la sovranità nazionale e l’interesse concreto delle comunità. I dazi di Trump sono una risposta forte e concreta a un sistema che per troppo tempo ha lavorato contro gli interessi dei popoli. Sarebbe ora che anche in Europa si trovasse il coraggio di cominciare a ragionare pragmaticamente secondo la stessa logica, se non proprio con le stesse modalità.